Gli scavi al Tofet di Mozia furono condotti da Antonia Ciasca ininterrottamente per dieci anni dal 1964 al 1973 (cui si
aggiunse una campagna nel 1993 finalizzata alla musealizzazione dell'area), con campagne sistematiche che hanno portato
al chiarimento della stratigrafia dell'area e al recupero di un numero notevolissimo di reperti. Il santuario ha
restituito più di mille deposizioni e circa duecento tra stele e cippi, distribuite su sette strati, oltre ad una serie
di altre installazioni di culto, che permettono di ricostruire, caso quasi unico nel panorama dei tofet punici, lo
sviluppo storico-archeologico del luogo di culto legato al sacrificio degli infanti durante tutta la storia di Mozia. I
sette strati distinti nel campo di urne sono stati raggruppati da Antonia Ciasca in tre fasi, concordemente con i dati
desumibili dallo studio delle strutture architettoniche presenti nel Tofet (i muri che delimitano il santuario, le mura
urbiche che lo chiudono sul lato settentrionale e i sacelli presenti al suo interno), che coprono un arco cronologico
compreso tra la seconda metà dell'VIII e la fine del IV secolo a.C.
Fase A - Strati VII, VI e V (c. 750-520 a.C.)

La fondazione del santuario presumibilmente segue di pochi anni lo stanziamento fenicio a Mozia alla metà dell'VIII
secolo a.C., che, secondo Antonia Ciasca, si può datare grazie a materiali ceramici greci rinvenuti nelle tombe della
necropoli arcaica, scavate in gran parte da Whitaker negli anni 1908-1913, appunto ascrivibili a questa fase
cronologica. Le dimensioni originali del santuario erano 20-25 m sull'asse est-ovest e 19-20 m su quello nord-sud.
Ciasca indica come limite del temenos originario sul lato ovest il muro M4, il quale tuttavia è anche il muro
perimetrale di una cappella rettangolare (11,0 m x 3,5 m) con ingresso da sud (delimitata anche dal muro M5); tale
struttura potrebbe in alternativa essere ricostruita, forse in modo più convincente, come un portico aperto verso est e
rivolto verso il campo di urne. Come limite orientale del recinto sacro Antonia Ciasca individuò una struttura molto
meno possente, che si sarebbe conservata solamente a sud (muri A2, A2N). Sul lato meridionale, infine, il limite del
santuario verso la città era rappresentato dal lungo muro T1.
Strato VII - I cinerari furono deposti inizialmente nel paleosuolo argilloso rossastro di Mozia, in fosse che
raggiungevano la marna calcarea affiorante; le urne erano a volte coperte da piccole pietre e in un caso una scheggia
di calcare era infissa sopra al cinerario, probabilmente con una valenza mnemonica. La densità delle deposizioni era
scarsa (0,5 per mq) e le fosse si distribuivano abbastanza regolarmente. I cinerari del settore nord erano costituiti
da piccoli vasi d'impasto, piattelli e anche piccoli grumi di argilla cruda. I resti degli incinerati erano modesti, in
alcuni casi minimi; nel settore centrale e meridione del santuario, invece, la qualità dei cinerari era migliore,
includendo anche vasi di fattura locale realizzati tuttavia al tornio. Una forma caratteristica è l'anforetta con
spalla marcata e carenata e decorazione a ingubbiatura rossa e linee nere, di solito chiusa da un grande piatto
ombelicato a tesa distinta, anch'esso completamente rivestito da un'ingubbiatura roosa. La cronologia dello strato VII
è stata fissata orientativamente dalla seconda metà dell'VIII secolo all'inizio del VII (750-690 a.C.).
Strato VI - Il primo rialzamento del campo di urne avviene nel primo quarto del VII secolo, attraverso una gettata di
terreno bruno contenente frammenti ceramici definiti "pre-fenici" (si tratta di paleosuolo di riporto da un settore non
lontano dal Tofet stesso, con materiali residui dell'Età del Bronzo). La densità dei cinerari aumenta nettamente in
questo strato (6 x mq), anche a causa del fatto che si possono distinguere due livelli deposizionali sovrapposti. Le
forme più innovative nei cinerari sono le anforette greco-geometriche, la brocca con collo cilindrico con costolatura
mediana (che resterà un tipo classico fino altro strato III), la pentola monoansata di tradizione fenicia e la pignatta
troncoconica con quattro prese (di tradizione locale); i piatti ombelicati e le lucerne bilicni sono invece le forme
predilette per le coperture dei cinerari. Sempre a questo strato appartengono una brocca con orlo a fungo, un
incensiere a doppia coppa e una brocca dipinta (di tradizione siceliota). Lo strato VI copre indicativamente l'intero
VII secolo a.C.
Strato V - Una nuova sistemazione del campo di urne è segnalata da uno strato di terreno argilloso chiaro ricco di
marna calcarea. In questo strato per la prima volta compaiono monumenti votivi come cippi e stele; la densità delle
urne è ora di 4,5 mq, anche se il dato è parziale perché dipendente dal complesso della superficie esposta. I cinerari
sono costituiti in gran parte dalle olle monoansate e dalle brocche con collo cilindrico a risalto mediano. Tra i vasi
più significativi si distingue una pisside cilindrica corinzia della prima metà del VI secolo a.C. (restaurata nella
campagna di scavi 2002). La tendenza ad evidenziare le deposizioni con stele e altri segnacoli è altresì testimoniata
dall'uso, attestato nel livello più alto dello strato V, di incistare i cinerari tra lastre di pietra messe di taglio,
spesso in associazione con un cippo o una stele (i pochi rinvenuti in situ nello strato V sono rivolti verso sud-est,
vale a dire verso il punto nel quale Antonia Ciasca ha ipotizzato che si trovasse l'ingresso al santuario). Nella fase
successiva, sono stati ritrovati cumuli di stele chiaramente rimossi dallo strato V, che, per via dell'allargamento del
campo di urne che causò una ripresa dell'attività di deposizione più in basso, ad Oriente dello spazio deposizionale
originario, rimase a lungo esposto e fu infine scavato dal Whitaker (che ivi recuperò circa 150 stele e frammenti di
stele). Alla fine dello strato V (e anche alla fine della prima fase d'uso del santuario [Fase A]) un gruppo di
terrecotte fu deposto tra due blocchi (D ed E) a poca distanza dal luogo dove probabilmente sorgeva, nel punto più
elevato del Tofet, un piccolo sacello quadrato (Ciasca riteneva che le terrecotte fossero state interrate ritualmente
non lontano dal loro originario contesto di utilizzazione). La stipe includeva alcuni tra i più famosi ritrovamenti del
Tofet di Mozia: la maschera ghignante, che era forse in origine affissa nel sacello quadrato, la protome femminile
velata del tipo cosiddetto rodio, sei protomi femminili egittizzanti, una protome frammentaria di tipo siceliota.
Fase B - Strati IV-I,2 (520-397 a.C.)

Strato IV - La fine dello strato V marcò un cambiamento radicale del Santuario del Tofet, secondo Antonia Ciasca
seguito agli sconvolgimenti portati a Mozia dalla spedizione in Sicilia Occidentale dello spartano Dorieo. La nuova
sistemazione del Tofet fu determinata dall'erezione della cinta muraria, e vide la costruzione di un muro di
separazione tra il campo di urne e la cortina delle mura (muro T2); questa struttura, tuttavia, ebbe principalmente la
funzione di muro di sostegno di nuove gettate di terreno di riporto, che difatti in diversi casi oltrepassarono anche
il corrispondente tratto delle mura orientali (muro MEA). Ad ovest il santuario fu ulteriormente allargato con
l'aggiunta di un tempietto rettangolare ("Sacello A"), rivolto verso ovest, individuato solamente nei cavi di
depredazione delle fondazioni in blocchi (ad eccezione del solo blocco in calcarenite dell'angolo nord-est) e in una
piattaforma di marna calcarea che ne rialzava il settore est; tale tempietto a struttura rettangolare aveva un
carattere "contaminato" greco-punico, con una colonna a capitello dorico al centro dell'ingresso in antis occidentale
(fiancheggiato da lesene) e, tuttavia, una copertura piana caratteristica degli edifici punici moziesi; la struttura e
le dimensioni sono paragonabile per certi versi all'edificio rettangolare riconosciuto da J. N. Coldstream come un
tempietto eretto fuori della Porta Nord. L'edificio preesistente (forse un portico), orientato trasversalmente con
l'asse maggiore nord-sud, che chiudeva ad ovest il campo di urne, rimase apparentemente in uso, anche se il pozzo
circolare che vi era associato fu colmato (con ciottoli, forse proiettili accumulati), il piano di calpestio alzato e
un nuovo pozzo con imboccatura quadrata aperto più a sud; l'impiego di entrambe le strutture, peraltro orientate una,
il portico, verso est e il campo di urne, l'altra, il Sacello A, verso l'esterno del santuario ad ovest, non è stato
chiarito. Nel campo di urne, ora situato nell'avvallamento orientale, circa 2 m sotto la quota del precedente strato V,
trovano posto numerose stele, che adottano per lo più lo schema della facciata a naos egittizzante, spesso con
iscrizioni dipinte. I cinerari dello strato IV sono ancora le pentole globulari, le olle monoansate e le brocche con
collo cilindrico a risalto mediano e le coperture delle deposizioni sono anche in questo strato costituite da piatti
ombelicati, coppette e pochissime lucerne (che non presentano quasi mai tracce d'uso); i materiali dai cinerari
mostrano segni di combustione, probabilmente perché deposti mentre la combustione era ancora in corso. La cronologia
dello strato IV oscilla tra la fine del VI e l'inizio del V secolo (520-500 a.C.).
Strato III - Un nuovo evento violento segna la fine dello strato IV, dal momento che le mura urbiche vengono distrutte
e ricostruite (ciò è evidente nel tratto denominato MEA), come pure il muro T2, che viene rialzato per delimitare
nuovamente il campo di urne anche collocando per testa numerose stele smontate dallo strato IV e disposte in modo da
creare una facciavista piatta all'esterno, mentre all'interno le facce lavorate e le diverse lunghezze dei monumenti
vengono regolarizzati tramite l'inserimento di pietre e altri materiali di risulta. Nel terreno dello strato III i
cinerari si dispongono molto fitti (6,2 mq), anche oltrepassando a sud-ovest il presunto limite orientale originale del
santuario (sovrapponendosi al muro A2N). In questo strato, oltre alle stele (l'unica in situ è rivolta verso nord), si
rinvengono anche alcuni cippi-trono con pilastrini con funzione di incensieri, un altare (S.120), due stele
"a cappella" (S.285 e S.35), una scavata con un vano interno per l'inserimento di un betilo o di una statuetta di culto
chiuso da una porticina di legno, l'altra con la statuetta di una divinità (maschile?) realizzata a parte, in modo da
essere asportabile dalla nicchia. I cinerari dello strato III sono ancora l'olla monoansata, la pentola monoansata e la
brocca a collo cilindrico con risalto mediano. Vi sono anche un coperchio, due tipi tardo-corinzi e una brocca acroma
siceliota, probabilmente residuali, che Antonia Ciasca ha considerato ancora pertinenti alla fine del VI - inizi del V
secolo a.C. In ogni caso, lo strato si può datare considerando il complesso dei ritrovamenti al primo ventennio del V
secolo a.C. (500-480 a.C.).

Strato II - Il muro di terrazzamento orientale del campo di urne fu nuovamente rialzato con stele dello strato III; tra
di esse è stata rinvenuta una protome femminile egittizzante in terracotta. I lavori di spostamento delle stele atti a
liberare il campo e prepararlo per nuove deposizioni sono inoltre testimoniati da una grande stele ritrovata con la
metà inferiore abbandonata ai limiti meridionali del santuario insieme ad altre stele ammucchiate e quella superiore
impiegata nel corpo del muro T2. Il nuovo strato deposizionale è costituito da terreno di argilla grigio-giallastra
pura; i cinerari hanno una densità di 2,1 x mq (il saggio di scavo è però molto ampio e include zone prive di
deposizioni); scompaiono in questa fase le stele e i segnacoli, mentre aumenta nettamente la presenza della ceramica
selinuntina. Lo strato II è contemporaneo della fase 3 delle fortificazioni e si data tra 480 e 420 a.C.
Strato I,2 - Lo strato più recente, che è in uso per un tempo limitato prima della distruzione finale della città, si
caratterizza ancor di più per la presenza di elementi grecizzanti, evidenti per esempio nei cinerari, che sono pentole
del tipo con l'orlo a risalto interno fortemente marcato (lekanides). La densità delle deposizioni scema ancor di più
in questo strato (0,8 mq), anche se questo potrebbe essere attribuito al lasso di tempo relativamente breve trascorso
dal momento della ricostituzione del campo di urne alla distruzione finale di Mozia. Questo evento violento pose fine
all'attività regolata d'impiego del Tofet ed fu seguito da interventi di spoliazione che interessarono principalmente
gli edifici maggiori del santuario e le mura, ma che solo marginalmente coinvolsero il campo di urne, il quale continuò
lo stesso ad essere utilizzato nella Fase C (strato I,1), per tutto il IV secolo a.C.
Fase C, Strato I,1 (397-300 a.C.)
La Fase C rappresenta l'ultima utilizzazione del santuario, già in parte distrutto e depredato, da parte degli abitanti
di Mozia, scampati alla grande distruzione finale della città. L'ampliamento nella valletta che fiancheggiava ad est lo
sperone roccioso su quale era stato inizialmente aperto il campo di urne fu colmato definitivamente, venendosi a
ricostituire una situazione pianeggiante, dove le urne dello strato V ad ovest si trovavano praticamente a contatto e
in parte coperte da quelle dello strato I,1 ad est. I cinerari dello strato I,1 includono la pentola tegame con corpo
carenato, anse addossate, orlo a risalto interno e coperchio a forma troncoconico di tradizione greca, mentre i
piattelli ombelicali sono ormai con tesa amplissima e pesante base a disco. Nel cavo di ruberia delle strutture del
"Sacello A", ad ovest, viene riposto in una stipe un gruppo di terrecotte provenienti probabilmente proprio da questo
tempietto, nelle rovine del quale è stato rinvenuto in frammenti un trono con sfingi, che pure si deve datare nel
periodo immediatamente precedente.
Bibliografia:
- A. Ciasca, "Sul tofet di Mozia", in Sicilia Archeologica 4,14 (1971), pp. 10-15.
- A. Ciasca, "Mozia (Sicilia): il tofet. Campagne 1971-1972", in Rivista di Studi Fenici 1,1 (1973), pp. 94-98.
- M.G. Amadasi Guzzo, "Una stele iscritta dal tofet di Mozia", in Rivista di Studi Fenici 6,2 (1978), pp. 153-159.
- M.G. Amadasi Guzzo, "La documentazione epigrafica dal tofet di Mozia e il problema del sacrificio molk", in C.
Bonnet, E. Lipinski, P. Marchetti (a cura di), Religio Phoenicia. Acta Colloquii Namurcensis habiti diebus 14 et 15
mensis Decembris anni 1984 (Studia Phoenicia 4), Lovanio 1986, pp. 189-207.
- A. Ciasca, "Mozia: sguardo d'insieme sul tofet", in Vicino Oriente 8,2 (1992), pp. 113-155.
- A. Ciasca, "Un arredo cultuale del tofet di Mozia (Sicilia)", in E. Acquaro (a cura di), Alle soglie della
classicità: il Mediterraneo tra tradizione e innovazione. Studi in onore di Sabatino Moscati, Pisa-Roma 1996, pp.
629-637.
- A. Ciasca, R. Di Salvo, M. Castellino, C. Di Patti, "Saggio preliminare sugli incinerati del tofet di Mozia",
in Vicino Oriente 10 (1996), pp. 317-346.
- A. Ciasca, "Archeologia del Tofet", in A. Gonzáles, L.A. Ruiz Cabrero (a cura di), Otto Eissfeldt. Molk als
Opferbegriff im Punischen und Hebräischen und das ende des Gottes Moloch. Molch como concepto del sacrificio púnico
y hebreo y el final del dios Moloch, Madrid 2002, pp. 121-140.
- P. Bernardini, "Per una rilettura del santuario del tofet, 1. Il caso di Mozia", in Sardinia, Corsica, Baleares
Antiquae 3 (2005), pp. 5-70.